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Aquì Estamos: una tragica storica guatemalteca

Andrea Vivian

È il pomeriggio di domenica 23 gennaio e il clima è particolarmente gradevole. Sono sdraiato sull’amaca a cercare di mettere insieme le idee dopo la giornata di ieri, ma trovare le parole è particolarmente difficile. Verso le quattro e mezza di pomeriggio sono andato ad un incontro alla Comedora ComunitariaNkä’äymyujkëmë – Comamos Todxs della città di Oaxaca. 

Las comedoras sono sostanzialmente delle trattorie popolari che si trovano ancora ovunque  in Messico; pasti buoni e prezzi bassi. I compagni e le compagne che collaborano a questa esperienza di mutuo aiuto recuperano il cibo che altrimenti sarebbe buttato dal mercado de Abastos (il mercato popolare di  Oaxaca), lo cucinano e lo offrono in cambio di un contributo volontario non obbligatorio. Vengono preparate le sedie e il proiettore, mentre intorno Enrique espone delle fanzine e si creano dei capannelli di persone che chiacchierano. 

Sono quasi le sei quando Ignacio prende la parola e inizia a presentare il tema dell’incontro: la guerra civile in Guatemala (1960 – 1996) e il traffico di bambini. Lui parla spagnolo con un inconfondibile accento francofono e ciò è dovuto al fatto che ha trascorso tutta la sua vita in Québec. All’età di due anni è stato adottato da una famiglia canadese che lo ha cresciuto con la convinzione  di averlo salvato dal lunghissimo conflitto armato guatemalteco. 

L’incontro inizia proprio con un riepilogo di quello che è successo nel paese durante gli anni della guerra civile. Dopo il colpo  di stato militare del 1954 ai danni del presidente eletto Jacobo Arbentz scoppiò, in seguito all’insurrezione di massa del 1960, il conflitto che coinvolgeva militari e paramilitari, da una parte, e, dall’altra, organizzazioni ribelli della sinistra rivoluzionaria appoggiate dai contadini. Si stima che all’incirca 200.000 persone persero la vita, almeno 45.000 furono i desaparecidos, un milione e mezzo gli sfollati. Alquanto brutali furono le conseguenze sulla popolazione civile: in particolare il genocidio delle comunità Maya e le violenze di masse sulle donne. 

“I popoli Maya del Guatemala hanno subito delle gravissime violenze durante la guerra civile che ha scosso il paese tra il 1960 e il 1996. Questo aspetto del conflitto armato,  è stato riconosciuto come genocidio delle popolazioni indigene, iniziò intorno al 1978, quando le comunità maya divennero il bersaglio della violenza dell’esercito. Durante questi attacchi, quasi 5.000 bambini sparirono o furono sequestrati durante lo sfollamento coatto (desplazamiento forzado) di intere famiglie da parte dei militari. In seguito furono dati in adozione all’estero per ‘motivi umanitari’. Infatti le autorità videro le adozioni non solo come un mercato lucrativo, ma anche come una strategia volta a far scomparire potenziali guerriglieri futuri.” [opuscolo estamos aqui, consultabile sulla pagina fb]

Ignacio è uno di quei 5.000 bambini rubati alle famiglie d’origine e mentre inizia ad illustrare ai presenti questa tematica la sua voce si rompe a causa dolore più volte. Lo ha scoperto nel 2019, quando è andato per la prima volta in Guatemala ed ha iniziato a sentire tante storie come la sua. Da li in poi ha deciso di dedicarsi totalmente al suo progetto di ricerca e giustizia. Insieme ad altre vittime di questo orribile crimine ha fondato, il 2 dicembre 2021, il collettivo ‘Estamos aqui / Nous sommes ici’ per cercare di rimettere in contatto le famiglie con i figli perduti. [vedi comunicado de prensa 2 dicembre, Montreal, Canada]

“Estamos Aqui è composto da persone nate in Guatemala durante il conflitto interno 1960 – 1996 che sono state adottate in Canada e sono ora persone adulte. Molti di noi pensavano di essere stati abbandonati dalle nostre famiglie e di essersi salvati grazie alle adozioni, ma le conclusioni di un’indagine più approfondita suggerisce un’altra realtà: siamo stati rapiti e venduti all’estero. I nostri genitori impotenti hanno vissuto il dolore della nostra sparizione.

Il nostro collettivo si pone come missione quella di creare una rete di solidarietà tra il Québec e il Guatemala al fine di sostenere i percorsi di tutte quelle persone che hanno subito la nostra stessa sorte, di coloro che sentono lo stesso desiderio di ritrovamento  e guarigione. Il nostro gruppo si propone di accompagnare queste persone nel processo potenzialmente doloroso di recupero di quella memoria e quella giustizia che pensavamo finora fosse perduta.” [avis de recherche du collectif Estamos Aqui, 3 dicembre, Montreal. Consultabile sulla pagina fb]

L’incontro prosegue con la proiezioni di alcuni filmati riguardanti storie simili a quella di Ignacio. Sostanzialmente il processo di adozione si svolgeva in questa maniera: durante i desplazamientos i bambini venivano presi dall’esercito e mandati in un qualche orfanotrofio dove gli veniva data una nuova identità e dove venivano resi disponibili per l’adozione. Le famiglie che volevano adottare pagavano fino a 35.000 dollari per regolarizzare le pratiche di adozione, anche se in realtà il denaro andava generalmente per metà nelle tasche degli avvocati che si occupavano di fornire i documenti necessari e per l’altra metà agli istituti dove questi bambini venivano portati dopo essere stati letteralmente rubati. Un altro modus-operandi era forse ancora più agghiacciante: dopo il parto veniva detto alle madri che avevano perso il neonato anche se non c’era modo di vedere il corpo.

Tuttavia la “trata de niños” non sembra essersi fermata con la firma degli accordi di pace del 1996, infatti secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, nel periodo che va dal 1999 al 2008, il numero di bambini e bambine guatemalteche adottati negli USA corrisponde a 28.895, mentre non esistono dati per quanto riguarda il Canada e l’Europa. Per gli anni precedenti non si riescono a trovare dei registri di questo tipo, rendendo di fatto impossibile dare una quantificazione del fenomeno. Si calcola però, grazie ad un’inchiesta di TeleMundo, che nel solo 2007 il Guatemala abbia guadagnato circa 200 milioni di dollari grazie al mercato delle adozioni. 

Uno dei problemi principali è che le famiglie adottive non sapevano nulla di quello che stava succedendo, anche perché le associazioni che si occupavano delle adozioni garantivano la regolarità di queste ultime. È il caso per esempio di Mariela Sifontes e di Alberto Zuna, adottati in Belgio da famiglie che si erano rivolte all’associazione Hacer Puente, che si occupava di intermediare le adozioni nel paese centroamericano per lo stato belga e per quello francese, e che è stata messa sotto inchiesta nel 2018 dalla procura federale belga. 

In Guatemala invece il traffico di bambini era favorito da un alto numero di avvocati, giudici e funzionari pubblici che approfittarono della propria posizione e delle conoscenze politiche e istituzionali per agire nella più totale impunità.

Verso le otto di sera l’incontro finisce e mi dirigo verso casa. Sono sinceramente colpito da quanto ho appena sentito e non riesco a capacitarmi di come i governi (e i militari) dell’America latina abbiano trattato i propri stessi popoli negli anni della Dottrina della Sicurezza Nazionale. Dopo il caso in Argentina dei bambini rubati ai desaparecidos e cresciuti dai militari stessi, un altro caso simile viene a galla nella palude di quegli anni maledetti per questa parte del mondo. 

La grande maggioranza dei paesi latinoamericani è stata sconvolta da brutali dittature civico-militari nella seconda metà del Novecento e le ferite sono ancora aperte, come testimoniano le lacrime di Ignacio e come testimonia il grido ‘Ni olvido ni perdon’ che si leva ovunque in America Latina. Le giovani democrazie (o supposte tali) del subcontinente fanno sempre fatica ad affrontare i traumi del passato e ciò è dato principalmente da due fattori: il primo è che non vi è stato un sostanziale ricambio in quelle che sono tutt’ora le classi dirigenti di questi paesi  (l’unica eccezione potrebbe essere l’Argentina); in secondo luogo dalla forza che i militari continuano a detenere all’interno degli stati. 

La ricerca di giustizia di Ignacio e del collettivo estamos aqui è appena iniziata. La strada sarà lunga e tortuosa, ma la determinazione è tanta anche di fronte alle ingenti difficoltà. Chi conosce un po’ questa parte del mondo sa dei rischi che si corrono denunciando questo tipo di ingiustizie, ed è anche per questo motivo che la solidarietà internazionale è sempre un’arma molto importante. 

Buona fortuna a Ignacio e a tutti i compagni e le compagne di estamos aqui!

Giustizia per i crimini del conflitto guatemalteco! 

¡Vivxs nos llevaron, vivxs estamos, vivxs regresamos!

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